Si dibatte frequentemente sulla competitività dei Porti Italiani, ed in particolare, come spesso accade nel nostro Paese, la facile demagogia politica ed Associativa, frutto dell’ipertrofico proliferare di Compagini Associative per assetati di protagonismo, porta a considerazioni scontate ed a volte banali.
Val la pena forse, come al solito, lasciarsi andare nel lavoro di analista per poter sviluppare qualche considerazione che, ancorché non completa e perfettibile, ci aiuta se non altro a basarci su numeri più che su antipatie personali o beghe da “bar dello sport”.
Partiamo da una breve analisi su dati 2017 dei principali Terminals Container Italiani (purtroppo alcuni non sono analizzabili in quanto “diluiti” nelle altre attività operative dei rispettivi Gruppi e, quindi, non costituite da autonome legal entities):
Il ROCE (Return On Capital Employed) è pari a circa il 22% mentre la remunerazione dei Mezzi Propri (ROE) si attesta nel 23%
Nell’ambito della suddetta analisi vi è una marcata varianza con i Terminal che svolgono una funzione prevalentemente Hub e di grandi dimensioni (> 1 mil. teus) capaci di ottenere remunerazioni del capitale superiori al 40%
Soffrono (per quanto si tratti di un eufemismo) i Terminal “medi” (> 500 mila teus) che svolgono la doppia funzione spoke and hub
Remunerano molto bene il Capitale i Terminals (ancorché piccoli, <300 mila teus) che ottimizzano l’utilizzo della forza lavoro esterna
In ambito container, considerata una nave media (Panamax tradizionale) ed una rotta lunga verso l’Europa, possiamo dire che il maggior valore unitario delle merci normalmente trasportate fa si che l’incidenza del trasporto e delle attività di banchina pesino rispettivamente per meno del 5% e dell’1%.
Il costo medio di THC è inferiore ai 100 euro/teu e, pertanto in linea, se non inferiore, alle esperienze Internazionali.
I servizi tecnico-nautici, pur apparentemente non incidenti in valore relativo, assicurano un altrettanto elevato livello di ritorno a coloro che svolgono tali funzioni molto spesso in via universale e monopolistica.
Se andiamo ad analizzare la tipologia break bulk abbiamo una situazione sostanzialmente diversa in quanto l’incidenza delle due fasi (trasporto e movimentazione) impatta in maniera più consistente e rispettivamente per il 6% (trasporto) e 3% (handling). Al tempo stesso il ritorno sul capitale operativo per i Terminal destinati a tale segmento è di poco superiore al 10%. Tutto ciò è dovuto al fatto che il valore delle merci trattate è più basso mentre l’investimento in Equipment è altrettanto rilevante (spazi coperti/scoperti e mezzi di piazzale/banchina) rispetto alle quantità trattate; facciamo, infatti, fatica a ricordare di terminal break bulk che movimentano più di due milioni di tons, mentre abbiamo visto che terminal container con movimentazione superiore ai 10 mil. tons generano ritorni elevati ed inusuali.
Tuttavia, ben sappiamo che il nostro modello è di tipo landlord, ovvero basato sulla proprietà pubblica dell’Infrastruttura ed il relativo rapporto concessorio imperniato prevalentemente sugli art. 16 e 18 della l. 84/94 revisionata con Dlgs 169/2016. Se analizziamo i bilanci delle pur redditizie AdSP scopriamo che il ROCE di queste Istituzioni non supera di molto il 10%; tutto ciò ci induce a qualche considerazione che sarebbe interessante riportare nelle opportune sedi e che, se non recepita in chiave polemica, potrebbe anche indurci a scelte diverse:
Sembrerebbe che l’eccessivo costo logistico dei nostri scali sia causato prevalentemente dal cargo time più che dai costi di handling. La carenza di infrastrutture inland genera incertezza sui time to delivery con conseguente posizione “dominante” da parte dei Terminal che beneficiano di alti volumi e buone connessioni
Non è un caso che i carriers si siano da tempo accorti dell’”asimettria” reddituale che sussiste nella supply chain tra trasporto (pochi margini, alti investimenti, bassa redditività, alti rischi operativi) e logistica “a terra” (maggiore concentrazione, minori investimenti rispetto allo shipping, alti ritorni)
Maggiori prospettive in ambito break bulk che ancora deve vivere il suddetto processo di concentrazione e dimensionamento “a terra”
Last but not least, l’unico loser sembra proprio essere il soggetto pubblico il quale rischia di essere arbitro imparziale attraverso un utilizzo sub-ottimale dello strumento della concessione, e soprattutto incapace di distinguere i differenti valori di un rapporto concessorio che non possono essere meramente relegati ad un computo metrico (x euro per mq. o ml.) ma che dovrebbero essere oggetto di una più attenta ponderazione se vogliamo che il bene pubblico venga utilizzato con ritorni più efficienti. Altrimenti non potrebbe spiegarsi l’anomalo fenomeno che vede ritorni del Capitale superiori al 40% per alcuni terminalisti con il soggetto proprietario dell’infrastruttura fisica (AdSP) che viene soddisfatta con rendimenti ben più inferiori.
Ma ben si intende che un tale processo, come più volte da me affermato, richiederebbe un copioso lavoro di monitoraggio e di indirizzo previsto dalla istituita (solo sulla carta) Conferenza di Coordinamento ai sensi dell’art. 11 ter.
Fabrizio Vettosi