La Brexit porterà a una migrazione di navi fuori dal Regno Unito???

17 aprile 2019

La bomba di una “hard Brexit” è stata temporaneamente disinnescata poiché i Paesi dell’Unione Europea e il Regno Unito hanno concordato la scorsa settimana una proroga flessibile fino al 31 ottobre 2019. “Questo significa ulteriori sei mesi per il Regno Unito per trovare la migliore soluzione possibile” ha affermato il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. La politica britannica avrà ora sei mesi di tempo per cercare una maggioranza sull’accordo di divorzio a Westminster, se questa sarà davvero la soluzione finale, evitando lo sfacelo di una separazione traumatica, che secondo il vecchio calendario si sarebbe dovuta compiere, venerdì 12 aprile. Condizione posta dall’Unione per ottenere la proroga: la partecipazione della Gran Bretagna alle elezioni Europee, pena trovarsi catapultata fuori dal blocco senza un accordo, il primo giugno. In ogni caso la premier Theresa May va ripetendo ai suoi omologhi europei che vuole uscire il prima possibile dall’Unione, puntando alla scadenza del 22 maggio.

In attesa di conoscere quale sarà alla fine la data fatidica di questa tanto agognata Brexit, quali si prevede possano essere gli impatti sui traffici marittimi e sulle “professioni del mare”? Una Brexit senza accordo causerebbe danni in tutta Europa con evidenti ripercussioni sull’applicazione di dazi doganali, l’inclusione di nuove direttive sulla gestione delle spedizioni ed eventuali nuove tipologie di controlli alle frontiere.
Secondo un’analisi del New York Times, nell’ipotesi di Brexit “no deal”, il Regno Unito perderebbe fino al 9,3% del Pil e anche gli altri paesi dell’Unione europea subirebbero delle forti ripercussioni.
Le imprese italiane, per esempio, potrebbero risentire molto di una Brexit senza accordo se si considera che nel 2017 l’export italiano verso il Regno Unito ammontava a 23,1 miliardi di euro e che nel periodo 2012-2017 il Regno Unito ha coperto una quota media annua di oltre il 5% dell’export italiano nel mondo.

A Londra ha sede FONASBA, la Federazione delle Associazioni nazionali degli agenti e dei broker marittimi di cui presiedo il “Chartering & Documentary Committee” e di cui sono membro del Comitato Esecutivo. La mia opinione è che nella realtà dei fatti la City è e resterà probabilmente la capitale dello shipping a livello Europeo, mentre, come tutti sanno, a livello mondiale il vero fulcro per il settore è ormai da tempo Singapore. Lo shipping, così come i servizi finanziari e diversamente invece dalle attività produttive, non ha bisogno di una sede specifica per operare. Quindi non ci sarebbero ragioni per spostare attività, salvo possibili implicazioni fiscali nei rapporti di chi vi opera con società basate in Unione Europea. Personalmente non vedo altri possibili effetti reali.

C’è da dire che vi sono gruppi armatoriali Britannici con tutte le navi battenti bandiera UK ma il cui traffico prevalente è tra porti comunitari (a volte addirittura tra porti dello stesso paese) che hanno già pronto il piano B: vale a dire spostare la propria flotta dalla bandiera Britannica a quella di un paese Ue in caso di Brexit.
Lo stesso che vale anche per gli aerei dove è noto l’esempio del vettore low-cost Easy Jet i cui aeromobili sono ancora sotto bandiera UK ma il gruppo ha già approntato il piano B: è stata creata una società in Austria che gli permetterà, in caso appunto di hard Brexit, di continuare ad operare senza alcun problema in tutta Europa.

 

Leggi: Aziende italiane in Gran Bretagna: che fare in caso di hard Brexit? (repubblica.it)

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